In ogni parte del mondo, a New York, Mosca o Shanghai, preso posto sul sedile posteriore di un taxi, chiunque, con la custodia di un violino in mano, si sentirà chiedere da chi guida la stessa domanda: “Stradivari?”
Il violino è Stradivari, Stradivari è il violino. E Cremona, la città cui questo illustre figlio ricordava di appartenere sui cartigli dei suoi strumenti, è oggi più che mai Stradivari.
Il primo violino della storia fu costruito nella metà del Cinquecento e fu costruito a Cremona.
Non dobbiamo esserne sorpresi, se pensiamo alla straordinaria stagione che la città vive nel XVI secolo. La città governata dagli spagnoli in quei decenni è luogo di ingegno, arte e musica: vi operano uomini di scienza, artisti, musicisti e violinisti, tutti cremonensis invitati per le loro capacità presso le principali corti europee. Siamo solo agli esordi di una narrazione creativa che immediatamente assicura il primato agli strumenti costruiti a Cremona. La città è, nello stesso tempo, una eccellente fucina musicale che esprime musicisti e compositori come Marc’Antonio Ingegneri e il suo allievo Claudio Monteverdi, il Divin Claudio, l’artista geniale che, all’inizio del Seicento, indica la strada per lo sviluppo della musica. Epoca che coincide con un periodo di forte mobilità per i musicisti, che da Cremona si dirigono verso altri centri italiani ed europei; numerosi i suonatori di violino e viola che si allontanano dalla città diretti verso le principali corti, a testimoniare una rilevante tradizione violinistica, l’eccellenza di una scuola “cremonese”.
È il 1539, un magister cremonese affitta una casa con bottega nell’isolato degli artigiani a due passi dalla monumentale cattedrale: è Andrea Amati (1505c.-1577), l’artista dalle cui mani nascono i primi violini.
La Cremona del Cinquecento non è solo luogo della musica, ma anche culla di uomini d’ingegno chiamati, come i musicisti, al di là delle Alpi. È la città dove nascono uomini di scienza come Janello Torriani, (1500-1580), orologiaio e ingegnere idraulico al servizio di Carlo V, re di Spagna, ingegnoso costruttore di automi meccanici, e, soprattutto, famoso progettista dell’Arteficio de Juanelo: complesso sistema meccanico che sollevava l’acqua dal fiume Tago alla fortezza dell’Alcazar nella parte alta della città.
Se pensiamo all’arte figurativa incontriamo una delle maggiori esponenti femminili del rinascimento italiano, Sofonisba Anguissola, (1532-1625): pittrice cremonese e dama di corte della regina Elisabetta di Valois a Madrid dal 1559, diviene la ritrattista della famiglia imperiale. Nulla è casuale pensando ad Andrea Amati e ai suoi strumenti decorati con il motto e l’emblema di Filippo II, marito di Elisabetta. Ma la pittura cremonese è espressione anche dell’opera di Bernardino Campi (1520-1591) esponente del manierismo lombardo la cui presenza in città è testimoniata dalle opere visibili nella Cattedrale e nella Chiesa di S. Sigismondo. E poi Galeazzo Campi e i suoi figli Giulio (1502-1572), Vincenzo (1536-1591) e Antonio (1524-1587), non legati da alcun rapporto familiare a Bernardino, di cui si conservano numerose opere nelle chiese della città e al Museo Civico.
Infine, va considerata la presenza in città di una consolidata attività nell’arte lignaria: Cremona infatti, a differenza di altri importanti centri caratterizzati dalla rilevante attività di scultori lapidei, si distingue per un’importante tradizione nella lavorazione del legno, e ricco è il patrimonio conservato in città, con esempi di prim’ordine, come l’armadio di Giovanni Maria Platina costruito entro il 1480 e oggi conservato al Museo Civico della città.
Non sorprende, allora, che in quegli anni un cremonese concluda un percorso evolutivo che parte da strumenti ad arco di epoca precedente e definisca forma e tratti di un nuovo strumento, il violino, né sorprende vedere la mano dei pittori cremonesi nell’apparato decorativo degli strumenti che quel cremonese, Andrea Amati, crea per il re di Francia Carlo IX. Le allegorie della pietà e della giustizia, gli angeli reggi corona presentano tutti i caratteri del manierismo cremonese cinquecentesco. Strumenti da suonare che uniscono l’arte liutaria e quella della pittura cittadina.
Le fonti d’archivio narrano che il magister Andrea Amati figlio di Gottardo, anch’egli artigiano, nel 1539 affitta una casa con bottega nella parrocchia dei SS. Faustino e Giovita. Un successivo documento, datato 1576 attesta quella casa con bottega come proprietà di Andrea e non solo: ne conferma infatti anche l’attività del proprietario: “Magister Andrea di Amadis in casa suva: l’arte suva se de far instrumenti de sonar…”.
Padre di famiglia con almeno due figli e tre figlie, Andrea muore il 24 dicembre 1577, trovando sepoltura nella chiesa di San Domenico, a pochi passi dalla sua abitazione. I figli Antonio (1540c.-1607) e Girolamo (1550c.-1630) ricevono in eredità un’attività indubbiamente florida, con un ruolo consolidato nel panorama europeo. I due fratelli incollano all’interno dei loro strumenti un cartiglio con entrambi i loro nomi, in cui si dichiarano figli di Andrea.
L’attività comune e l’armonia fra i due sembra però interrompersi bruscamente nel 1588. In quell’anno Girolamo che, a differenza del fratello ancora celibe, si era sposato due volte, dopo aver condiviso con lui la dote delle sue due mogli, ne chiede la restituzione. Antonio, che non ha disponibilità finanziaria, cede a Girolamo la sua porzione di casa in San Faustino. Il documento testimonia rapporti non certo sereni fra i due, che giungono a separarsi anche dal punto lavorativo, tuttavia, nonostante i contrasti, entrambi utilizzeranno molto raramente etichette con solo il loro nome, preferendo firmare i loro strumenti con la dicitura: Antonius & Hieronymus Fr. Amati / Cremoneñ. Andreæ fil. F.
Girolamo continuerà ad utilizzare per lungo tempo la medesima dicitura anche dopo la morte del fratello.
Nicolò (1596-1684), figlio di Girolamo, dalla giovane età affianca in bottega il padre, con il quale lavora fino alla morte di questi, nel 1630 a causa della peste.
L’epidemia oltre a Girolamo Amati si porta via anche Giovanni Battista Maggini, liutaio attivo nella vicina Brescia, lasciando così Nicolò solo fra le mura della bottega e decretando allo stesso tempo la fine della tradizione liutaria bresciana. Lo sviluppo dell’attività di Nicolò fu straordinario e ben presto per far fronte alle richieste di lavoro, non avendo all’epoca figli maschi, si trova nelle condizioni di formare giovani allievi, fra questi i famili Andrea Guarneri (1623-1698) e Giacomo Gennaro (1624c.-1701). Nel 1645 Nicolò, ormai prossimo ai cinquant’anni, sposa la giovane Lucrezia Pagliari, pochi anni più tardi nasce Girolamo, l’erede a cui lasciare la bottega. Tutto fa presagire la continuità della supremazia della famiglia; ma il quadro cittadino dopo un secolo di presenza della sola bottega Amati è segnato da una forte evoluzione che penalizza proprio la storica officina.
Negli ultimi decenni del secolo troviamo nuovi protagonisti, giovani artigiani di prima generazione legati alla bottega di Nicolò o influenzati dal suo lavoro. Ricordiamo fra questi Andrea Guarneri il familio attivo fino alla fine del secolo, il liutaio più vicino a Nicolò. Legato al maestro da un legame familiare: Andrea, è testimone alle sue nozze e nuovamente ospite nella casa di Nicolò per un breve periodo, in occasione del suo matrimonio. Andrea lascia alla sua morte al figlio Giuseppe (1666-1740c.) il compito di proseguire nell’attività, mentre il figlio maggiore Pietro (1655-1720), liutaio e musicista si era da tempo trasferito a Mantova.
Il contesto è arricchito dalla presenza di Francesco Ruger o Rugeri (1620c.-1698) capostipite di una nuova famiglia di liutai, i suoi quattro figli: Giovanni Battista (1653-1711), Vincenzo (1661-1719), Giacinto (1663-1697) e Carlo (1666-1713) proseguiranno più tardi l’attività paterna. Se per Francesco Rugeri non è documentato l’apprendistato nella bottega degli Amati, i suoi strumenti costituiscono una sorprendente testimonianza di un forte legame: del resto, l’atto di battesimo di una sua figlia, che vede Nicolò citato nel ruolo di padrino, prova non solo una conoscenza fra i due bensì profonda amicizia.
A completare il quadro è la comparsa sulla scena cittadina di colui che segna il futuro della storia della liuteria: sono, infatti, i primi dell’attività di Antonio Stradivari (1644c.-1737).
Nato pochi anni prima di Girolamo II Amati, nulla è certo rispetto alla sua formazione così come non si conoscono il luogo e la data di nascita. I suoi primi strumenti mostrano tratti riconducibili al lavoro di Nicolò, nonostante anche per lui non esistano prove attestanti la sua presenza nella bottega Amati., ma l’etichetta in un violino del 1666, considerato il suo primo strumento, riporta la dicitura alumnus Amati.
Sono anni che vedono Antonio affermarsi nel panorama cittadino, quelli dedicati alla costruzione di straordinari violini intarsiati e di strumenti a pizzico.
Nel 1690 la commissione da parte del marchese Ariberti di un intero quintetto di strumenti da donare al Gran Principe Ferdinando de’ Medici sancisce l’affermazione del nuovo protagonista della realtà liutaria cittadina. Una manciata di anni dopo, nel 1698, muoiono Andrea Guarneri e Francesco Rugeri, e quasi a compensare la scomparsa dei due liutai nasce il figlio di Giuseppe, quel Bartolomeo Giuseppe conosciuto universalmente come Guarneri del “Gesù”, che segnerà i decenni più prossimi del secolo successivo. Nel Settecento l’attività dei Rugeri prosegue grazie al lavoro dei figli di Francesco, Giuseppe e suo figlio Bartolomeo Giuseppe successivamente garantiscono la continuità della bottega Guarneri, collocata nell’isola vicinissima allo storico laboratorio Amati.
Con l’inizio del secolo Antonio Stradivari è il liutaio protagonista della scena cittadina. L’acquisto, nel 1680, della casa con bottega nel centralissimo quartiere dove erano già attive le altre due botteghe liutarie prova, del resto, un successo raggiunto già negli ultimi decenni del Seicento. La sua attività prosegue intensamente, con a fianco i figli Francesco (1671-1743) e Omobono (1679-1742): straordinari violini e violoncelli, frutto di un intenso e costante lavoro di ricerca e innovazione attenta all’evoluzione del repertorio violinistico di quegli anni, lasciano la bottega.
Una singolare vicenda può essere considerata indicativa di quanto accade in città nei primi decenni del Settecento considerando il piccolo mondo dei liutai cremonesi.
A seguito di una complicata vicenda, nel 1698 a fronte di un prestito ottenuto impegnando una porzione della casa in San Faustino, i fratelli Giovanni Battista e Girolamo Amati sono costretti a pagare una rendita annua di 150 lire a don Alessandro Stradivari, figlio di Antonio. La casa è quella affittata nel 1539 da Andrea, sede dell’attività di famiglia. Quello che avviene conferma il tramonto della famiglia Amati e l’inarrestabile ascesa di Antonio Stradivari: vicende personali che segnano la fine di un’epoca. Le difficoltà di Girolamo II Amati, dei Rugeri testimoniate dal testamento di Giacinto, dove si rimpiangono gli anni precedenti, e la vita difficile dei Guarneri rappresentano nei primi decenni del Settecento i prodromi di quello che accadrà nella seconda metà del secolo. In questi stessi anni appare nel panorama cittadino la figura di Carlo Bergonzi (1683-1747), ultimo liutaio ad avere lavorato, a partire dagli anni 1745-46, nella bottega di Stradivari ed aver utilizzato le forme e i modelli che gli eredi di Antonio gli affidano.
Antonio muore, superati i novant’anni, nel 1737. Trova sepoltura nel Chiesa di San Domenico, di fronte alla sua abitazione, congiungendosi simbolicamente con Andrea Amati e Andrea Guarneri.
I figli di Giuseppe Guarneri non hanno il successo riservato al solo Stradivari: Pietro II (1695- 1762) lascia la città per recarsi a Venezia e Giuseppe Guarneri “del Gesù” (1698-1744) vive con non poche difficoltà, a lui sarà riconosciuta una tardiva popolarità; i suoi strumenti saranno ricercati solo nei decenni del secolo successivo quando il suo nome verrà affiancato a quello del virtuoso Nicolo Paganini. Girolamo II, ultimo erede degli Amati, nonostante abilità indiscusse, fuggirà dai debiti e dalla città in cerca di miglior fortuna dopo avere visto morire l’attività della famiglia, quel far instrumenti in cui gli Amati avevano primeggiato per più di un secolo.
I figli di Antonio Stradivari, Francesco e Omobono, scapoli e senza eredi, muoiono pochi anni dopo il padre. Negli anni successivi, vivono soprattutto grazie alla vendita dei numerosi strumenti finiti ancora disponibili nella bottega.
Carlo Bergonzi muore nel 1747; sono gli anni terribili della liuteria cremonese: dal 1737 al 1749 scompaiono Antonio Stradivari e i suoi figli, Guarneri “del Gesù” e suo padre Giuseppe, Carlo Bergonzi ed infine Girolamo II Amati. In città i figli di Carlo Bergonzi, Michele Angelo (1721-1758) e Zosimo (1724-1779) subiscono loro malgrado il lento e graduale declino della città. Anni in cui la concorrenza di liutai attivi in altre realtà della penisola è sempre più pressante, centri dove si costruiscono strumenti che per qualità rappresentano una valida alternativa a quelli cremonesi. Liutai che operano a Venezia, Napoli o Torino, città in grado di offrire ben altre opportunità rispetto alla piccola Cremona, che senza alcun dubbio non è stata in grado di invertire un destino difficile che l’ha allontanata sempre più dal suo prestigioso passato.
All’inizio dell’Ottocento un giovane ufficiale dell’esercito napoleonico, Marie-Henri Beyle, più conosciuto come Stendhal scrive nell’estate del 1801: “Parto, vado a Cremona… un grande paesone dove si muore di noia e di caldo”.
Chi lavora nelle botteghe all’inizio del nuovo secolo in quel grande paesone? Chi sono i nuovi artefici di una tradizione secolare? Chi vive con fatica un periodo economicamente difficile in una Cremona isolata rispetto ai grandi circuiti commerciali, in un clima culturale che non è quello vivace e creativo del Cinquecento? Quali artigiani sono spettatori del temporaneo dominio dei francesi a partire dal 1796 e della sconfitta nel 1814 di Napoleone e del ritorno degli Austriaci.? Michele Angelo Bergonzi muore, troppo giovane e senza eredi, e non vede svilupparsi il cammino della sua arte, saranno i figli del fratello Zosimo, Nicola (1754-1832) e Carlo Antonio (1757-1836) a condurci nell’Ottocento. Con loro a faticare in città troviamo Lorenzo Storioni (1744-1816), di cui si conoscono strumenti costruiti a partire dal 1770, più tardi con lui il garzone Giovanni Rota (1767-1810), ed infine Giovanni Battista Ceruti (1756-1810). Una presenza ancora numericamente significativa; quello che appare è però il ruolo sempre più debole, nel contesto europeo e nazionale, della liuteria cremonese. Quanto sta accadendo si può tratteggiare sinteticamente ricordando le vicende personali di Nicola Bergonzi. Nipote di Carlo Bergonzi, Nicola, figura nell’elenco dei fabbricanti di violini e chitarre in compagnia di Lorenzo Storioni e del suo assistente Giovanni Rota nel 1787. Trascorrono alcuni anni e il 12 marzo 1832 lo stesso Nicola compare nell’elenco delle denunce di cessazione dall’attività di commerciante di tessuti. È evidente che il lavoro di liutaio viene abbandonato per dedicarsi ad un’attività più redditizia o più modestamente in grado di garantire maggiore sicurezza economica. Realtà ben diversa da quando altre condizioni consentivano agli artigiani cremonesi l’investimento dei loro guadagni in immobili e in altre attività imprenditoriali. Questo è il quadro della liuteria in città nel corso dell’Ottocento, il secolo che sarà identificato per lunghi decenni nell’attività della famiglia Ceruti: dopo Giovanni Battista sono il figlio Giuseppe (1785-1860) e il nipote Enrico (1806-1883) a continuare a costruire strumenti in città. Con l’ultimo dei Ceruti troviamo Pietro Grulli (1831-1898) e Giuseppe Beltrami (?-1881). In questo contesto non dimentichiamo Gaetano Antoniazzi (1825-1897), probabilmente legato professionalmente ai Ceruti, e i suoi figli Riccardo (1853-1912) e Romeo (1862-1925). La famiglia lascia la città nel 1870 per trasferirsi nella vicina Milano in cerca di miglior fortuna, contribuendo significativamente allo sviluppo della scuola di liuteria milanese di inizio Novecento. In città il testimone passa nelle mani Pietro Grulli (1831-1898) e Giuseppe Beltrami (?-1881) e più tardi di Romedio Muncher (1874-1940), Luigi Digiuni (1878-1937), Carlo Schiavi (1883-1943) e Carlo Bosi (1908-1943).
Dopo secoli di grande splendore Cremona è povera di talenti e musica e all’inizio del Novecento la traiettoria rimane la stessa del secolo precedente: decenni che hanno visto chiudersi tradizioni familiari, con la fine di storiche botteghe, e i violinari cremonesi migrare verso centri più vivaci in grado di offrire prospettive migliori. Il cammino dei liutai in città si incrocia in questi tempi con la figura di Aristide Cavalli, che con spirito imprenditoriale avvia una produzione seriale di strumenti in città, l’Officina Claudio Monteverde, ispirandosi a modelli di organizzazione del lavoro già sperimentati da anni in Francia e Germania. Un’iniziativa che sembra sancire definitivamente la fine di ogni ambizione cittadina a ritrovare l’eccellenza nella costruzione artigianale degli strumenti, esperienza del resto che non ebbe un felice destino.
Sul finire degli anni Trenta del Novecento: la svolta. La città da tempo sta cercando di ritrovare la sua identità, la figura di Stradivari e con lui l’intera liuteria cremonese iniziano, dopo un periodo di oblio, a diventare un patrimonio popolare. Nel 1937 grande è lo sforzo economico e organizzativo per celebrare il bicentenario della morte di Antonio Stradivari, alimentandone il mito in città. Cremona per un mese torna ad essere la capitale della liuteria. Quattro anni prima era stata inaugurata al Museo Civico la Sala Stradivariana, dedicata all’esposizione di tutti i reperti provenienti dalla bottega di Stradivari.
L’anno dopo le celebrazioni stradivariane, apre la scuola di liuteria per riscoprire e recuperare un saper fare artigianale perduto nel corso dell’ultimo secolo. I primissimi decenni sono difficili per la scuola: bisogna attendere la fine della seconda guerra mondiale, la ripresa economica del paese negli anni Sessanta del secolo, per assistere ad una costante crescita degli iscritti e dei diplomati, in grado di generare nuove botteghe artigiane e far rivivere in città un antico saper fare. Si giunge così al terzo millennio.
Oggi Cremona è tornata la città del violino, questa è l’aria che si respira. Gli strumenti si vedono nelle vie del centro esposti nelle vetrine delle botteghe, gli artigiani al loro interno concentrati a tagliare legni. Numerose le statue dedicate a Stradivari, al violino e alla musica: segno di una identità ritrovata. Una città che suona, nelle sale da concerto e agli angoli delle strade.
Quella straordinaria tradizione ha seguito un percorso non lineare, alternando momenti di grande splendore a periodi di estrema difficoltà. Oggi, per merito di un’intera comunità, quel villaggio fondato dai romani ha ritrovato nel mondo il suo ruolo, cui hanno contribuito gli Amati, i Guarneri, gli Stradivari, i Rugeri o Ruger, i Bergonzi, Lorenzo Storioni e tutti gli artigiani che sono venuti dopo di loro, fino ai più di 160 liutai che oggi accordano strumenti per i musicisti di tutto il mondo.
Dal 2012 il metodo costruttivo cremonese è iscritto nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale immateriale UNESCO e la sua comunità, oltre che a mantenerlo vivo con la pratica quotidiana si occupa della sua salvaguardia.
È responsabile della conservazione, catalogazione e valorizzazione degli strumenti e dei reperti conservati al Museo del Violino di Cremona, del quale cura anche gli allestimenti espositivi e relative pubblicazioni.